Progettare in modo inclusivo
Didattica per tutti e attenzione alle diversità
Che cosa si intende per “valore inclusivo”? Si intende un valore che consiste nel miglioramento della qualità didattica complessiva per tutti gli alunni, i quali in questo modo riescono a ottenere proposte maggiormente individualizzate / personalizzate. In concreto, una buona didattica inclusiva cerca di realizzare alcuni compiti essenziali.
Il tema del funzionamento umano differente
Riconoscere e comprendere le varie differenze degli alunni, sia quando sono differenze problematiche sia quando sono «semplicemente» modi diversi di pensare, apprendere, relazionarsi, vivere situazioni. Una didattica diventa sempre più inclusiva proporzionalmente a quanto gli insegnanti sapranno accorgersi e comprendere le modalità di «funzionamento» individuali e particolari.
II tema dell’equità
Valorizzare le differenze (innanzitutto non pensandole solo in accezione negativa ma anche per le loro valenze positive), nel senso di considerare di «pari valore, dignità e diritti» ogni differenza e di realizzare, per un’esigenza di equità, forme di differenziazione e di compensazione per raggiungere situazioni di uguaglianza sostanziale tra gli alunni, e non solo quindi di pari opportunità. In altre parole, dare di più a chi ha di meno, per dirla alla don Milani. La valorizzazione delle differenze implica quindi innanzi tutto il «cercarle»/riconoscerle, comprendere per poter quindi poi agire in modo efficace e partecipativo.
Il tema dell’efficacia tecnica e della piena partecipazione sociale.
Incontrare in modo efficace le particolarità di funzionamento dei singoli alunni, attraverso offerte formative realmente in grado di sviluppare il massimo del loro potenziale apprenditivo nei contesti naturali di una buona partecipazione sociale e di una appartenenza piena alle situazioni collettive.
Da alcuni anni si cerca di capire e sperimentare quanto e come interventi tecnici, speciali ed efficaci, possano stare dentro la normalità del fare scuola per tutti, nella quotidianità, arricchendola e modificandola, ed essendo essi stessi modificati, smussati nelle loro asperità tecniche, normalizzati in senso positivo (Ianes, 2006).
Dunque ci chiediamo quanto un intervento tecnico, formativo o didattico, di provata efficacia, si possa rivolgere a tutti gli alunni, migliorando così la qualità diffusa dell’offerta formativa. Alcune proposte tecniche possono coesistere benissimo nella dialogica tra «normale e speciale» che abbiamo chiamato «speciale normalità» (ad esempio gli interventi fonologici e metafonologici abilitativi rispetto a difficoltà nell’apprendimento della lettura, o l’uso delle tecnologie compensative pensate originariamente e riduttivamentc come ausilio per la dislessia e ora espanse in ambienti complessi a supporto metacognitivo dell’apprendimento di tutti gli alunni, quali il software IperMAPPE).
L’enfasi su questo principio di «speciale normalità» nacque come tentativo di uscire dal «dilemma della differenza» (Terzi, 2005; 2008; D’Alessio, 2007; 2011) tra interventi tecnici efficaci ma segregati e segreganti (spesso), da un lato, e interventi ad alta integrazione sociale ma poco efficaci per gli apprendimenti, dall’altro.
L’obiettivo era di evitare di scegliere un lato a scapito dell’altro, unendo in una coesistenza dialogica le migliori istanze delle due posizioni, perché entrambe, quella tecnica e quella della piena partecipazione sociale, hanno in sé grandi valori che verrebbero oscurati dall’uso esclusivo di un’opzione senza l’altra. Più recentemente, sull’onda delle polemiche e del dibattito suscitati dal testo
Gli alunni con disabilità nella scuola italiana: bilancio e proposte (Associazione Treellle, Caritas Italiana e Fondazione Agnelli, 2011 ; Scataglini, 2012), si fa sempre più strada la posizione che sostiene che la priorità assoluta per ridare all’integrazione scolastica degli alunni con disabilità la qualità che merita e per muovere passi significativi verso l’inclusione sia proprio un miglioramento significativo nella qualità della didattica quotidiana e normale per tutti gli alunni.
Qualità diffusa che, purtroppo, non è affatto migliorata in questi ultimi 10 anni, come invece la crescente complessità della scuola italiana avrebbe richiesto (Cavalli e Argentin, 2007).
Un obiettivo, dunque, rivolto a tutti i docenti e alle loro prassi e non più soltanto agli insegnanti di sostegno, fino a ipotizzare, addirittura un’assimilazione virtuosa di questi ultimi all’interno del corpo docente normale (Ianes, 2011).
La via italiana all’inclusione completa, totale e piena — quella che dovrebbe caratterizzare la scuola italiana come la pensarono i padri costituenti e tutti coloro che tentarono e tentano tuttora di realizzare una scuola di massa, cioè un’inclusione che coniughi equità e promozione sociale con la valorizzazione delle eccellenze — parte negli anni Settanta con le battaglie per inserire gli alunni esclusi (allora quelli con disabilità), e da allora l’attenzione primaria è stata catturata dalle forme più eclatanti di difficoltà (la disabilità appunto) e poi via via anche dalle altre (oggi i disturbi dell’apprendimento) per le quali organizzare forme adeguate di individualizzazione e personalizzazione.
Nel frattempo, però, la scuola degli alunni senza apparenti difficoltà non è diventata più inclusiva e più promozionale dal punto di vista sociale e, anche se ha raggiunto strati sempre più ampi di popolazione nell’età dell’obbligo, i risultati sono stati scarsi, soprattutto a livello di scuola media unica (Fondazione Agnelli, 2011).
La popolazione scolastica negli anni è diventata sempre più eterogenea e complessa, senza che a questo aumento di difficoltà corrispondesse un pari investimento in formazione, metodologie e competenze. Le varie categorie di disabilità e difficoltà si sono organizzate e moltiplicate, realizzando un disegno di promozione e tutela frammentato e disorganico. Ognuno pensa al suo particolare, senza una visione generale, e cioè al 100% degli alunni (si veda la Direttiva MIUR del 27.12.2012 «Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica»).
Nel 2005 si propose (Ianes, 2005) di usare una visione di «inclusione» diversa da quella utilizzata a livello internazionale (D’Alessio, 2007; Medeghini, 2006; 2009; Booth e Ainscow, 2008; Dovigo, 2007; 2008; Norwich, 2002; 2003), un’inclusione che fosse una risposta individualizzata/personalizzata a quel 20% di alunni con Bisogni Educativi Speciali che, pur vivendo difficoltà rilevanti, erano esclusi dalle misure aggiuntive previste dalla Legge 104 per gli alunni con disabilità, gli unici tutelati dalla normativa.
Fu una posizione tattica dettata da considerazioni di equità: alunni con evidenti difficoltà non potevano avere accesso a risorse importanti per il loro apprendimento e per la partecipazione sociale.
Questa posizione ebbe l’effetto di portare l’attenzione anche su altre difficoltà quasi del tutto trascurate nel riconoscimento della legittimità di un bisogno derivante da un particolare «funzionamento umano», e non soltanto da alcune diagnosi cliniche.
Ora la consapevolezza della presenza di un minimo 20% di alunni con Bisogni Educativi Speciali a cui la scuola italiana deve rispondere è una realtà acquisita e crediamo si possa usare correttamente la parola inclusione come nel panorama internazionale (Inclusive Education) pensando al 100% degli alunni e non al 20% con difficoltà.
TRATTO DA: “Insegnare domani nella scuola dell’infanzia e primaria.“